Una giornata di ordinaria follia


Mosca, 4 dicembre, il cielo è nuvoloso e cade una pioggia leggera ma fastidiosa. Esco dal mio alloggio per andare in centro: ho intenzione di assistere a quello che succederà in questa giornata di elezioni qui in Russia.
So che alle 14:00 è stata indetta una manifestazione non autorizzata dal movimento “Fronte di Sinistra” (Левый Фронт), l’appuntamento è sulla Piazza Rossa. Scendo alla fermata del metro Okhotnyj Rjad e camminando nei sottopassi labirintici della stazione noto che diverse uscite sono state transennate e sono presidiate dalla polizia. Alla prima uscita lasciata aperta risalgo in superficie e subito mi trovo di fronte un folto gruppo di persone, circondate da fotografi e poliziotti, che cercano di mostrare volantini e piccoli striscioni.


 I poliziotti strappano sistematicamente dalle mani dei manifestanti qualunque cosa essi cerchino di mostrare e formano un cordone per spingere via la folla, lontano dalla Piazza Rossa.


I giornalisti cercano di prendere interviste dai manifestanti, parlano con alcuni giovani e con qualche signora anziana, ma stare fermi non è possibile, la polizia spinge via tutta la folla. Nel giro di mezzora tutta la gente viene spinta “gentilmente” in un’altra stazione del metro: un poliziotto ripete al megafono “Gentili cittadini, per favore, lasciate libero il passo, non fermatevi in mezzo alla strada. L’accesso alla Piazza Rossa è chiuso”. Un rappresentante del Fronte di Sinistra viene intervistato: “E’ incredibile! La Piazza Rossa è sempre aperta al pubblico, perché proprio oggi l’hanno chiusa? Solo per non permetterci di manifestare il nostro dissenso!”
Sono quindi costretto ad andarmene e decido di proseguire sulla Via Tverskaja, per andare ad osservare come si svolgono le votazioni in un seggio elettorale. Trovo il seggio situato nella sede del vecchio telegrafo ed entro. Chiedo subito se è permesso fotografare e il poliziotto all’entrata mi risponde positivamente e mi lascia passare. All’interno del seggio c’è moltissima gente, e c’è un’afa tremenda, mi si appanna la lente dell’obiettivo della macchina fotografica. La maggior parte delle persone è ammassata al punto informazioni: infatti questo seggio è stato pensato per chi non ha la residenza a Mosca e tutti cercano di capire come devono compilare un modulo che viene dato loro. Una signora discute con una funzionaria della commissione elettorale: a quanto pare in un altro ufficio, dove sta portando avanti le pratiche per avere la residenza a Mosca, le hanno detto di presentarsi in quel seggio, ma la funzionaria insiste nel dire che l’hanno indirizzata male. Tanta è la confusione che una coppia, facendo a gomitate per uscire dalla folla, decide che non ne vale la pena, e se ne va senza aver votato.
Sempre facendo a gomitate, riesco ad accedere al seggio vero e proprio e qui assisto al teatro dell’assurdo: le cabine elettorali non sono cabine, piuttosto sembrano quelle mensole che si trovano nei nostri tabaccai dove la gente si gioca la schedina. Ovviamente queste specie di mensole non concedono la dovuta intimità ai votanti, che mettono la loro croce osservati liberamente da chiunque passi. Un vecchietto chiede ad un impiegato spiegazioni su come votare, l’impiegato indica un punto sulla scheda e dice “Ecco, vede? Deve mettere una croce proprio qui”. Una ragazza vota, poi si volta verso il suo ragazzo, mostra la sua scheda elettorale e si fa fare una foto col telefonino.



 Mi volto, e mi trovo davanti le urne più futuristiche che abbia mai visto: non sono semplici scatole con il buco nel quale infilare la scheda, ma sembrano dei distributori automatici, solo che invece di inserire banconote (e poco ci manca) ci va inserita la scheda, aperta. Alcune persone si presentano davanti all’urna con la scheda piegata e si ritrovano, loro malgrado, a doverla riaprire per poterla inserire dentro.


Esco dal seggio e continuo a percorrere la Via Tverskaja, verso Piazza Triumfal’naja, dove alle 18 è prevista la manifestazione del movimento L’altra Russia. Arrivato a circa cento metri dalla piazza osservo un dispiegamento di forze dell’ordine colossale: su tutta la via, da entrambi i lati della strada, sono parcheggiate camionette della polizia e si vedono in giro più poliziotti che passanti.


 All’interno di una di queste camionette, attraverso le grate poste ai finestrini, riesco a scorgere diverse persone sedute all’interno, giovani, che non indossano la divisa. Successivamente scopro che a quanto pare la polizia fermava i “volti noti” prima che arrivassero in piazza.
Sono le 16, due ore prima dell’inizio della manifestazione, e la piazza è già stata completamente transennata, c’è un poliziotto ogni dieci metri a presidiare tutta l’area. Non viene permesso alla gente di fermarsi, bisogna muoversi continuamente in questi stretti passaggi delimitati da transenne e camionette. Decido di fare il giro dell’isolato finché non comincerà la manifestazione e ad ogni giro vedo sempre più transenne e poliziotti. All’improvviso, alle 17:45, tutti i fotografi e i giornalisti si fiondano verso una camionetta: un manifestante è stato arrestato e viene caricato a forza dentro. Non ha fatto in tempo neanche a gridare uno slogan, probabilmente l’hanno semplicemente riconosciuto. Con gli altri fotografi rimango fermo davanti alla camionetta, ma dopo neanche cinque minuti i poliziotti decidono che stiamo bloccando il passo, ed insieme ad alcuni manifestanti (che per inciso, stanno completamente muti) veniamo spinti via da un cordone di polizia. 


Il cordone ci spinge sull’altro lato della piazza, così velocemente che si crea la calca intorno a me. Alcune ragazze, con le quali mi trovo fianco a fianco, cominciano a gridare: “Ridateci il diritto di scegliere!”. Alcuni poliziotti si lanciano sulla folla, spingono, cadiamo tutti per terra, io vado a sbattere su una transenna, ci cado sopra e sopra di me cade una delle ragazze che avevano gridato. Un poliziotto le si lancia sopra, la prende di peso e la porta via. Sta per girarsi, per un attimo ho paura che prenda anche me, ma un ragazzo che stava in piedi alla mia sinistra mi allunga una mano e mi tira via.
Il cordone di polizia continua a spingere e gli agenti strappano via dalla folla chiunque si azzardi a pronunciare uno slogan. La folla comincia a gridare “Vergogna! Vergogna!”, i poliziotti cominciano ad arrestare persone a caso, i primi che si trovano tra le mani.



Mi allontano dal cordone e mi ritrovo a parlare con alcune persone. Parlo con un ragazzo, un nazional-bolscevico, che nel frattempo ha un piccolo diverbio con un signore che definisce “liberale” (in accezione dispregiativa). Mentre sto parlando con lui, il cordone si avvicina. Mi volto e faccio due passi, per allontanarmi dal cordone, e quando mi rivolto indietro vedo che tre poliziotti hanno afferrato il ragazzo e lo portano via, solo perché non camminava svelto come volevano loro.
La manifestazione è finita: sono rimasti solo i fotografi e i giornalisti da un lato, i poliziotti dall’altro.
I manifestanti rimasti se ne sono andati, non c’è più nessuno da arrestare. La polizia ci lascia passare.

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